Sogni, cadute, errori del Cafferaio

8 Luglio 2019

Andai a lavorare come garzone di un piccolo tostatore. Giorgio aveva il tocco magico: sentiva il caffè come un elemento vivo inserito in un mondo di forze complesse, aveva un approccio quasi spirituale con la tostatura. Conosceva e maneggiava con la sua vecchia macchina a forno refrattario quelle trasformazioni che ancora oggi i grandi formatori lasciano scivolare con una “non sappiamo cosa succeda”, e questo nonostante oggi le tostatrici siano collegate a computer e software per la visione delle curve di tostatura.

Lui lo sapeva: in modo chiaro ed esatto. Tostava ascoltando il cambio di suono dei chicchi ed annusando nei punti critici. Non guardava mai il caffè.

Da poco aveva perso un figlio della mia età, e del mio nome. Ciò che ricevetti da lui fu il sapere e un amore profondo. Fu il primo a conoscere la mia futura moglie e Giorgio è il nome del mio primo figlio.

 

Tornai dopo un anno, o poco più, e produttivo e acerbo. Anche se non lo sapevo.

Mio padre aveva già qualche cliente, torrefazioni che avevano bisogno di assistenza in direzione e produzione: lui saliva in Direzione, io scendevo in Produzione. Le mie conoscenze dell’assaggio mi permettevano di modificare miscele e curve di tostatura: in quegli anni tostai, credo, su tutte le macchine possibili, per marca e dimensione. Mio padre m’insegnò quello che sapeva sugli impianti, la progettazione e la gestione.

Arrivarono anche i primi lavori all’estero: Capo Verde, Etiopia, Uganda. Il sogno cominciava a prendere forma e mi piaceva un sacco.

Poi cambiò il vento. La crisi del caffè scosse il panorama internazionale e colpì anche le torrefazioni in Italia, che tagliarono dal bilancio la voce “consulenze esterne”. Noi cominciammo a diversificare con altri settori. Accantonai il sogno e mi concentrai sulle mie finanze. Era comunque un passaggio necessario.

Conobbi Antonella, ci innamorammo e dopo due anni ci sposammo. Comprammo una casa tutta nostra. M’iscrissi di nuovo all’Università: Geografia.

Nel frattempo mio padre fu “acquistato” da una grande azienda e finì la nostra avventura insieme.

Ormai ero un ometto: avevo una famiglia e una casa, o meglio, un mutuo. Il lavoro mi permetteva di sopravvivere: dovevo riuscire a fare quel salto che ci avrebbe fatto uscire dall’affanno, e che sembrava sempre lì a portata di mano ma non arrivava mai.

Fu così che vidi il treno che arrivava. Bello, potente, lussuoso. Sarei diventato un dirigente con un’auto da sogno e la casa pagata. Saltai su senza nemmeno pensarci.

Ma non c’era nessun treno. Sei mesi dopo lavoravo come commesso di un negozio in aeroporto e guardavo inebetito la gente che passeggiava verso la porta d’imbarco. La vita non manca di senso d’ironia. Lo stipendio non copriva le spese del mutuo e a casa mangiavamo con i buoni pasto della mensa. Mi sentivo come il cane della favola, quello che molla l’osso perché vede il suo riflesso nell’acqua e desidera anche quello. Solo che era peggio, perché il riflesso che avevo cercato di addentare era il desiderio di sentirsi superiore. Ben mi stava! Avevo trentun anni e avevo rovinato tutto quello che avevo costruito. Avevo tradito la fiducia ed i regali dei miei maestri. Come un cane provavo la vergogna, abbattuto e curvo, con lo sguardo basso e la coda tra le gambe.

Per fortuna c’era Antonella, che ci credette per entrambi. Lasciò gli studi e trovò un lavoro. Mi impedì di mollare. Impiegai circa quattro mesi per rialzarmi.

 

L’azienda che faceva al caso mio si chiamava ICEA: era un consorzio nato da poco per sviluppare progetti di agricoltura biologica e commercio etico. Camminavo davanti  ai loro uffici sbirciando dalle finestre la gente che vi lavorava. Un giorno entrai dalla porta. Non telefonai, non scrissi. Infilai la porta: chiesi di Antonio. Per fortuna, c’era.

Due settimane dopo firmai il contratto e cominciai il mio nuovo lavoro: “Coffee, tea and Cocoa Department Manager”. C’era scritto così sul mio biglietto da visita. Non sulla scrivania, perché non l’avevo. Ed era una fortuna, perché il mio computer era impresentabile in quell’ambiente dinamico ed internazionale, e non avevo i soldi per comprarne un altro.

ICEA mi aveva dato tre filoni su cui lavorare: il primo era partecipare allo sviluppo dei diversi sistemi di certificazione etica ed ambientale.

Per dare un’idea, si lavorava sul cotone certificato bio nelle montagne dell’Afganistan, mentre i mujaheddin sparavano ai sodati sovietici. Seguivamo la ricostruzione dei parchi nazionali della Tanzania dopo la guerra con l’Uganda. Partecipavamo a mettere in rete le ultime foreste vergini del pianeta, tra Amazzonia, Ecuador, India, Madagascar, … Ogni progetto era dotato di complessità, fascino ed etica che mi lasciavano a bocca aperta.

Mi trovai presto a collaborare in squadre internazionali con esperti e docenti di altissimo livello. Io ero l’unico però ad avere la conoscenza pratica del prodotto e del mercato. Per esempio, con Rainforest Alliance costruimmo le prime filiere tracciabili che hanno permesso lo sviluppo del movimento Specialty.

Il secondo filone era vendere le certificazioni alle torrefazioni italiane: qui mi tornarono utili gli anni di lavoro con mio padre. Per fortuna quando ero caduto mi ero rintanato a leccarmi le ferite lontano dagli sguardi.

Se posso usare un termine, ci stavo dentro alla grande! E la sberla che avevo preso mi faceva essere collaborativo anche laddove il mio caratteraccio proprio non gradiva.

Ma soprattutto, con ICEA ho avuto la possibilità di ricominciare, e questa è una possibilità che capita raramente. Di più: sono stati sette anni incredibili, emozionanti e ricchi.

Ho conosciuto persone con storie, idee e progetti fantastici. Non tutto andava bene: alcuni progetti riuscivano, altri meno. Altri fallivano: a volte gli interessi in gioco erano troppo alti o l’idea prematura.

Il terzo filone, era il tecnico di filiera: dovevo dare assistenza tecnica alle cooperative che entravano negli schemi di certificazione ed aiutarle a sopravvivere nel primo periodo di crisi finanziaria.

Imparai le regole della povertà, quelle che partono dallo stomaco ed arrivano al cervello.

Nelle mie cooperative c’erano i grandi ideali e lo stomaco vuoto: se non c’è nulla da mettere in tavola oggi, non posso attendere per una bellissima idea di domani. Un sogno ha bisogno di essere libero dai morsi della fame.

Ho imparato a trovare soluzioni pratiche ed immediate per dare respiro e tempo: costruivo torrefazioni rurali e organizzavo anziane signore a vendere il caffè nei mercati. Insegnavo ad assaggiare nelle cucine di casa e lavoravo sul senso d’identità ed autostima delle persone perché non mollassero.

E la gente mi ascoltava, all’inizio, solo perché sapevo usare le mani: sapevo costruire ciò che serviva con quello che c’era a disposizione. Alla fine tutto è fatto di legno o di ferro.

E non me ne andavo a dormire finchè non avevo finito.

Dopo alcuni anni arrivarono anche clienti “altolocati”, come Slow Food e alcuni Governi. Ritrovai un vecchio amico, Massimo, che avevo conosciuto a Fogo dieci anni prima. Con lui formammo una bella squadra che ha fatto cose importanti e innovative in Centroamerica.

Un giorno arrivò Giorgio, mio figlio maggiore. Qualche mese dopo ero nel villaggio di Gracias Lempira, sulla cordigliera tra El Salvador e Honduras. Era domenica. Ricordo che ero seduto sul bordo del letto e guardavo il muro scrostato davanti a me: cosa ci facevo lì? Il mio posto era a casa, da mia moglie e da mio figlio.

Pochi mesi dopo scoprimmo che sarebbe arrivato Andrea, il secondogenito. Capii che non mi piaceva più prendere aerei, sentivo il bisogno di far crescere le radici. Sentivo il bisogno di casa.

Cominciai a lavorare ad un progetto che, come un filo, prendesse e mettesse insieme tutte le “perline” degli ultimi anni. Una torrefazione specializzata in caffè biologico certificato. Solo da progetti che avevo seguito in prima persona. E che potesse aiutare altri progetti di cooperazione a svilupparsi. In più che facesse anche un lavoro di sostegno all’identità di persone in situazioni difficili: un luogo di cura dell’autostima.

Avevo letto uno studio che analizzava la recidiva dei detenuti a fine pena: la maggior parte ritornava in carcere o si suicidava. E questo, diceva lo studio, pareva trarre origine dal sentirsi rifiutati dalla società, bollati come delinquenti per la vita.

Altercoop era l’unica cooperativa sociale che lavorasse con il carcere id Bologna. Andai a trovarli e feci loro la proposta. Accettarono.

Il 31 dicembre 2011 salutai ICEA, il 9 gennaio 2012 iniziava l’avventura de L’Albero del Caffè.