Samac

La storia di una foto… di caffè (II Parte)

Ecco, in cinque anni eravamo passati da una comunità destinata ad una resa nichilista, a un successo da superstar.

Io tornavo “sguillando” sulle piste fangose, emozionato per il grande lavoro fatto e perché li salutavo: il mio lavoro a SAMAC finiva con quella visita.

Ero emozionato anche perché avevo voglia di festeggiare con loro. Mi aspetteranno con un’orchestra di marimba, fantasticavo. E birra e tamales di yucca, i miei preferiti.

Il pick up svoltò a gomito per il sentiero che portava alla piazza del villaggio, passando a fianco della capanna di legno e paglia che sarebbe stato il mio alloggio per i prossimi cinque giorni. Le strade erano pulite e ordinate, le casette avevano fiori nei giardini e alle finestre.

 

Nella piazza della cooperativa, ad aspettarmi, c’erano quattro galline e un piccolo cane.

Niente marimba, niente tamales. Tre ragazzine camminavano con la cesta dei panni da lavare sulla testa. Parcheggiammo all’ombra del grande albero di Inga che domina la piazza. Tutto era in ordine, un ordine “apparente”. Come si dice, “per dove passa il prete”.

Con SAMAC, l’obiettivo era creare una comunità prospera attraverso il caffè: la cooperativa è il “contenitore” che agisce a livello sociale, il prodotto è lo strumento per ridare alle persone motivazione ed autostima. È un percorso faticoso e lungo, che richiede una certa presa di coscienza e di responsabilità. Non è piacevole, soprattutto all’inizio.

Il problema era che la fama esagerata data da EXPO e da tutta la visibilità ricevuta aveva acceso le luci della ribalta senza che il percorso fosse maturato nei tempi e nei modi.

E questa è la cosa peggiore che può succedere. Perché a questo punto non si hanno più “risorse” per richiamare le persone all’impegno ed alla responsabilità.

Amo profondamente SAMAC: li conosco di persona, ho vissuto storie splendide, abbiamo cantato insieme al Paab’ank, ne ho imparato la lingua, sono stato portato al cospetto dei loro Dèi. Sono un Fratello Q’etchìs. Ma è un’altra la storia che voglio raccontare ora.

 

Facciamo finta di essere dei genitori e chiediamoci: cosa desideriamo per i nostri figli? Che possano vivere la loro vita senza troppe preoccupazioni, che possano inseguire i loro sogni, che possano esprimersi nel mondo con la loro unicità. Che possano essere felici, integri e non dover correre in affanno per arrivare a fine mese. Ecco perché chiediamo loro disciplina, impegno, senso di responsabilità. Perché siano loro i padroni della loro vita e sappiano condurla. Impegno, responsabilità, disciplina servono a far sì che non siano altri a decidere della loro vita, che non abdichino ad essere i padroni del proprio destino.

Noi, come genitori, diamo delle regole perché da adulti vediamo e sappiamo; loro, da figli, non vedono ancora, non capiscono, si ribellano.

Io amavo SAMAC come un figlio, e mi sentivo responsabile. Vedevo, sapevo, ed amavo. Per loro quello era il successo, per me l’inizio del baratro.

Avevo cinque giorni per accendere dentro i figli di SAMAC quella fiamma di orgoglio che li avrebbe portati a prendere le redini della cooperativa e del villaggio, a prendere le redini delle loro vite e del loro futuro. E l’orgoglio era l’unica emozione a cui potevo fare affidamento.

Dove nasce il caffè, tutta la vita ruota attorno al caffè. La vita della famiglia, della comunità e di tutte le persone che incontri, anche in città. La scelta è viverci dentro o andare via. Se ci vivi dentro, l’orgoglio nasce nella cucina di casa, nelle parole dette in famiglia. Si espande nelle parole dette agli amici. Si alimentano leggende e supereroi.

L’orgoglio di uomo o donna nasce dal produrre un caffè eccellente. Un caffè di cui essere orgogliosi è un caffè senza difetti. Un caffè senza difetti è innanzitutto una raccolta perfetta.

Una raccolta perfetta necessita capacità di concentrazione, dedizione e fatica. Resistenza fisica e impegno. È un modo di vivere, in un luogo dove tutti coltivano caffè. E sono pochi quelli che sono disposti a dedicare questo livello di cura e impegno. Chi lo fa è conosciuto per nome, spesso si guadagna il prefisso “Don” e la sua parola è autorevole nelle riunioni.

Questo è l’orgoglio che dovevo risvegliare nei figli di SAMAC.

Poi dovevo riuscire a portare questo orgoglio personale come impegno di responsabilità nei confronti della comunità: è necessario portare ordine, regole chiare, un sistema di gratificazione sicura. Si comincia sfruttando il naturale senso di competizione e si arriva, con il tempo, ad organizzare un sistema ordinato e strutturato, che modella anche fisicamente gli spazi e non solo le menti.

Avevo cinque giorni per accendere la fiamma, e mi ci dedicai interamente anima, cuore, cervello, gambe e sudore. Notti comprese.

Per quattro giorni aveva piovigginato. Il tempo era stato abbastanza clemente. Il tardo pomeriggio ancora un bagliore di luce affiorava dalle nuvole gonfie. I primi soci arrivarono con i sacchi pieni di ciliegie e versandoli sui tavoli di selezione che avevamo costruito appositamente vidi la stessa raccolta approssimativa. All’ora di cena quasi tutti i soci erano già rientrati dal campo. Questo era il massimo risultato ottenibile: non ce l’avevo fatta. E non avevo più tempo.

Eravamo tutti nel grande magazzino che veniva usato anche come sala delle riunioni. Là in fondo, vicino al grande portone, il vociare gutturale della lingua Q’etchìs si mescolava al rumore della pioggia che batteva incessante sul tetto di lamiera. Era una sconfitta assordante. Cercai Francisco Caal Caal, il Presidente della cooperativa, e gli chiesi di poter parlare ai soci. Radunati a sedere davanti al grande palco di cemento, li osservai tutti insieme. Bagnati e stanchi, ma sempre dignitosi, i maschi da una parte della sala, le donne dall’altra. Come alle feste di paese. Le donne si riunivano in gruppi familiari: c’era la nonna, sua figlia, la nipote, la bisnipote. Nella Valle Nascosta, si diventa mamma tra i tredici e i sedici anni. A cinquant’anni si è già bisnonne.

Sull’altro lato gli uomini, molti in piedi. Come alle feste di paese. Qui non c’era possibilità di scelta: erano tutti nonni. Mancavano, nella sala, i giovani cavalli scalcianti, gli uomini in età da fatica ma ancora acerbi nell’animo, e con questo intendo dai quindici ai trent’anni. Erano già tutti a casa. Non li avevo convinti.

Mi venne in mente una fiaba di Roberto Piumini, cominciava così: “C’era una volta un Re. Era un bravo Re: si alzava presto la mattina e andava dormire tardi la sera, stanchissimo. Si occupava di tutto quello che …”

C’era proprio bisogno di un Re, a SAMAC. Un bravo Re: lucido, appassionato e responsabile.

Ma io non ci potevo fare più nulla.

Non ricordo cosa dissi loro, mi sentivo stanco e sconfitto. Avrei voluto fare un discorso motivante, che li svegliasse dal torpore, che la povertà è una scelta, che chiedessero al Dio Kinich Ahau la forza del Sole per alzarsi e costruire un futuro luminoso. Ma davanti avevo un centinaio di nonnini, bagnati e stanchi. Li ringraziai per avermi ospitato, ascoltato, accolto come un figlio della Valle, negli ultimi anni. Che gli Dèi Poderosi li avessero in serena benevolenza.

Fuori dal magazzino era buio, e pioveva forte. L’aria era fredda e pungente. Andai alla mia capanna. Misi i vestiti a sgrondare appesi ad un trave, mi infilai nel sacco a pelo, e cominciai a piangere.

La mattina dopo pioveva ancora. La foresta incombeva grigia e muta. Mi alzai con il morale sotto i piedi. Raccolsi tutte le mie cose e uscii dalla capanna.

Non aveva senso andare in campo: se non ce l’avevo fatta nei giorni precedenti, in quella giornata di pioggia era impossibile ottenere anche il minimo risultato. Mi dedicai alla torrefazione e alla cicaleggiante squadra di donne di Maria.

La sera, nel salone, aspettai i soci che rientravano dalla giornata di raccolta. Facevo il giro dei tavoli di selezione. Alla fine mi sedetti a chiacchierare, aspettando che arrivasse il pick up a prendermi per riportarmi sulla via di casa. Oramai era notte fonda.

Fu allora che mi sentii chiamare: “Signore. Scusi, signore.”

Mi girai. Alle mie spalle un ragazzino, bagnato fin nel midollo, gli occhi fissi nei miei.

“Per favore, può venire a vedere il mio sacco?”

Mi alzai e lo seguii. Il ragazzino alzò il sacco e cominciò a vuotarlo sul tavolo: ne uscivano ciliegie splendidamente mature, in un flusso rosso brillante. Perfette. Non una gialla o verde o troppo matura. Era la raccolta più bella che avessi mai visto. Guardai il ragazzino, ammirato. Forse SAMAC aveva trovato il suo Re.

Chiamai tutti i soci a celebrare il lavoro di Carlos. Con la Giunta Direttiva improvvisammo una premiazione ufficiale, incoronandolo Miglior Raccoglitore. Il trofeo fu il mio cappello e la mia giacca.

Questa è la storia che volevo raccontare, questo è ciò che ancora vive nei miei occhi, quando guardo la foto.