caffè bio

Ci vediamo al SANA Bologna!

Anche quest’anno partecipiamo all’iniziativa italiana più importante nel mondo del verde e del bio aperta al pubblico: il SANA Bologna, 31° Salone internazionale del biologico e del naturale, dove si parlerà di food, di lifestyle, beauty e non solo, per apprezzare appieno il valore e il gusto del green.

Ci troverete da venerdì 6 a lunedì 9 nello spazio ECOR Naturasì, pad30 c55, dalle 9:30.

Noi dell’Albero vi aspettiamo per un buon caffè e quattro chiacchiere sul gusto dell’etica, la nostra filosofia sul caffè (e non solo)!

Per maggiori informazioni sulla fiera visitare il sito www.sana.it

La storia di una foto… di caffè (II Parte)

Ecco, in cinque anni eravamo passati da una comunità destinata ad una resa nichilista, a un successo da superstar.

Io tornavo “sguillando” sulle piste fangose, emozionato per il grande lavoro fatto e perché li salutavo: il mio lavoro a SAMAC finiva con quella visita.

Ero emozionato anche perché avevo voglia di festeggiare con loro. Mi aspetteranno con un’orchestra di marimba, fantasticavo. E birra e tamales di yucca, i miei preferiti.

Il pick up svoltò a gomito per il sentiero che portava alla piazza del villaggio, passando a fianco della capanna di legno e paglia che sarebbe stato il mio alloggio per i prossimi cinque giorni. Le strade erano pulite e ordinate, le casette avevano fiori nei giardini e alle finestre.

 

Nella piazza della cooperativa, ad aspettarmi, c’erano quattro galline e un piccolo cane.

Niente marimba, niente tamales. Tre ragazzine camminavano con la cesta dei panni da lavare sulla testa. Parcheggiammo all’ombra del grande albero di Inga che domina la piazza. Tutto era in ordine, un ordine “apparente”. Come si dice, “per dove passa il prete”.

Con SAMAC, l’obiettivo era creare una comunità prospera attraverso il caffè: la cooperativa è il “contenitore” che agisce a livello sociale, il prodotto è lo strumento per ridare alle persone motivazione ed autostima. È un percorso faticoso e lungo, che richiede una certa presa di coscienza e di responsabilità. Non è piacevole, soprattutto all’inizio.

Il problema era che la fama esagerata data da EXPO e da tutta la visibilità ricevuta aveva acceso le luci della ribalta senza che il percorso fosse maturato nei tempi e nei modi.

E questa è la cosa peggiore che può succedere. Perché a questo punto non si hanno più “risorse” per richiamare le persone all’impegno ed alla responsabilità.

Amo profondamente SAMAC: li conosco di persona, ho vissuto storie splendide, abbiamo cantato insieme al Paab’ank, ne ho imparato la lingua, sono stato portato al cospetto dei loro Dèi. Sono un Fratello Q’etchìs. Ma è un’altra la storia che voglio raccontare ora.

 

Facciamo finta di essere dei genitori e chiediamoci: cosa desideriamo per i nostri figli? Che possano vivere la loro vita senza troppe preoccupazioni, che possano inseguire i loro sogni, che possano esprimersi nel mondo con la loro unicità. Che possano essere felici, integri e non dover correre in affanno per arrivare a fine mese. Ecco perché chiediamo loro disciplina, impegno, senso di responsabilità. Perché siano loro i padroni della loro vita e sappiano condurla. Impegno, responsabilità, disciplina servono a far sì che non siano altri a decidere della loro vita, che non abdichino ad essere i padroni del proprio destino.

Noi, come genitori, diamo delle regole perché da adulti vediamo e sappiamo; loro, da figli, non vedono ancora, non capiscono, si ribellano.

Io amavo SAMAC come un figlio, e mi sentivo responsabile. Vedevo, sapevo, ed amavo. Per loro quello era il successo, per me l’inizio del baratro.

Avevo cinque giorni per accendere dentro i figli di SAMAC quella fiamma di orgoglio che li avrebbe portati a prendere le redini della cooperativa e del villaggio, a prendere le redini delle loro vite e del loro futuro. E l’orgoglio era l’unica emozione a cui potevo fare affidamento.

Dove nasce il caffè, tutta la vita ruota attorno al caffè. La vita della famiglia, della comunità e di tutte le persone che incontri, anche in città. La scelta è viverci dentro o andare via. Se ci vivi dentro, l’orgoglio nasce nella cucina di casa, nelle parole dette in famiglia. Si espande nelle parole dette agli amici. Si alimentano leggende e supereroi.

L’orgoglio di uomo o donna nasce dal produrre un caffè eccellente. Un caffè di cui essere orgogliosi è un caffè senza difetti. Un caffè senza difetti è innanzitutto una raccolta perfetta.

Una raccolta perfetta necessita capacità di concentrazione, dedizione e fatica. Resistenza fisica e impegno. È un modo di vivere, in un luogo dove tutti coltivano caffè. E sono pochi quelli che sono disposti a dedicare questo livello di cura e impegno. Chi lo fa è conosciuto per nome, spesso si guadagna il prefisso “Don” e la sua parola è autorevole nelle riunioni.

Questo è l’orgoglio che dovevo risvegliare nei figli di SAMAC.

Poi dovevo riuscire a portare questo orgoglio personale come impegno di responsabilità nei confronti della comunità: è necessario portare ordine, regole chiare, un sistema di gratificazione sicura. Si comincia sfruttando il naturale senso di competizione e si arriva, con il tempo, ad organizzare un sistema ordinato e strutturato, che modella anche fisicamente gli spazi e non solo le menti.

Avevo cinque giorni per accendere la fiamma, e mi ci dedicai interamente anima, cuore, cervello, gambe e sudore. Notti comprese.

Per quattro giorni aveva piovigginato. Il tempo era stato abbastanza clemente. Il tardo pomeriggio ancora un bagliore di luce affiorava dalle nuvole gonfie. I primi soci arrivarono con i sacchi pieni di ciliegie e versandoli sui tavoli di selezione che avevamo costruito appositamente vidi la stessa raccolta approssimativa. All’ora di cena quasi tutti i soci erano già rientrati dal campo. Questo era il massimo risultato ottenibile: non ce l’avevo fatta. E non avevo più tempo.

Eravamo tutti nel grande magazzino che veniva usato anche come sala delle riunioni. Là in fondo, vicino al grande portone, il vociare gutturale della lingua Q’etchìs si mescolava al rumore della pioggia che batteva incessante sul tetto di lamiera. Era una sconfitta assordante. Cercai Francisco Caal Caal, il Presidente della cooperativa, e gli chiesi di poter parlare ai soci. Radunati a sedere davanti al grande palco di cemento, li osservai tutti insieme. Bagnati e stanchi, ma sempre dignitosi, i maschi da una parte della sala, le donne dall’altra. Come alle feste di paese. Le donne si riunivano in gruppi familiari: c’era la nonna, sua figlia, la nipote, la bisnipote. Nella Valle Nascosta, si diventa mamma tra i tredici e i sedici anni. A cinquant’anni si è già bisnonne.

Sull’altro lato gli uomini, molti in piedi. Come alle feste di paese. Qui non c’era possibilità di scelta: erano tutti nonni. Mancavano, nella sala, i giovani cavalli scalcianti, gli uomini in età da fatica ma ancora acerbi nell’animo, e con questo intendo dai quindici ai trent’anni. Erano già tutti a casa. Non li avevo convinti.

Mi venne in mente una fiaba di Roberto Piumini, cominciava così: “C’era una volta un Re. Era un bravo Re: si alzava presto la mattina e andava dormire tardi la sera, stanchissimo. Si occupava di tutto quello che …”

C’era proprio bisogno di un Re, a SAMAC. Un bravo Re: lucido, appassionato e responsabile.

Ma io non ci potevo fare più nulla.

Non ricordo cosa dissi loro, mi sentivo stanco e sconfitto. Avrei voluto fare un discorso motivante, che li svegliasse dal torpore, che la povertà è una scelta, che chiedessero al Dio Kinich Ahau la forza del Sole per alzarsi e costruire un futuro luminoso. Ma davanti avevo un centinaio di nonnini, bagnati e stanchi. Li ringraziai per avermi ospitato, ascoltato, accolto come un figlio della Valle, negli ultimi anni. Che gli Dèi Poderosi li avessero in serena benevolenza.

Fuori dal magazzino era buio, e pioveva forte. L’aria era fredda e pungente. Andai alla mia capanna. Misi i vestiti a sgrondare appesi ad un trave, mi infilai nel sacco a pelo, e cominciai a piangere.

La mattina dopo pioveva ancora. La foresta incombeva grigia e muta. Mi alzai con il morale sotto i piedi. Raccolsi tutte le mie cose e uscii dalla capanna.

Non aveva senso andare in campo: se non ce l’avevo fatta nei giorni precedenti, in quella giornata di pioggia era impossibile ottenere anche il minimo risultato. Mi dedicai alla torrefazione e alla cicaleggiante squadra di donne di Maria.

La sera, nel salone, aspettai i soci che rientravano dalla giornata di raccolta. Facevo il giro dei tavoli di selezione. Alla fine mi sedetti a chiacchierare, aspettando che arrivasse il pick up a prendermi per riportarmi sulla via di casa. Oramai era notte fonda.

Fu allora che mi sentii chiamare: “Signore. Scusi, signore.”

Mi girai. Alle mie spalle un ragazzino, bagnato fin nel midollo, gli occhi fissi nei miei.

“Per favore, può venire a vedere il mio sacco?”

Mi alzai e lo seguii. Il ragazzino alzò il sacco e cominciò a vuotarlo sul tavolo: ne uscivano ciliegie splendidamente mature, in un flusso rosso brillante. Perfette. Non una gialla o verde o troppo matura. Era la raccolta più bella che avessi mai visto. Guardai il ragazzino, ammirato. Forse SAMAC aveva trovato il suo Re.

Chiamai tutti i soci a celebrare il lavoro di Carlos. Con la Giunta Direttiva improvvisammo una premiazione ufficiale, incoronandolo Miglior Raccoglitore. Il trofeo fu il mio cappello e la mia giacca.

Questa è la storia che volevo raccontare, questo è ciò che ancora vive nei miei occhi, quando guardo la foto.

La storia di una foto… di caffè

Fermatevi per favore un istante ad osservare questa foto, l’ho scattata nel gennaio 2016: ritrae un ragazzo Maya Q’eqchì, figlio di un produttore della Coop SAMAC, con le ciliegie di caffè che ha raccolto quel giorno. Guardate le sue spalle e la testa, diritta. E gli occhi che guardano nella macchina fotografica. Sembra assente, inespressivo.

Fuori è già buio. E piove. Ha piovuto tutto il giorno.

 

Questo ragazzo si chiama Carlos Quiix Col, si è svegliato alle cinque di mattina e alle sei era in campo a raccogliere, nel piccolo terreno della famiglia. A volte ci penso a come deve essere, svegliarsi che già piove, con davanti dodici ore con i piedi nel fango scivoloso, la pioggia che cade dal cielo e dalle piante, che schizza negli occhi mentre cercano le ciliegie rosse al punto giusto. Senza l’aiuto della luce del sole i colori si fanno più incerti. E poi tornare alla cooperativa per portare il raccolto della giornata: in quel sacco ci sono 50 kg di ciliegie bagnate, il peso caricato sulla schiena e con una corda che passa sulla fronte perché mentre cammini, il sacco, prende le onde.

Tutto questo a fine giornata, lungo il sentiero fangoso. E continua a piovere. E il sacco, è qui.

Adesso, forse, da quegli occhi, da quel viso inespressivo, ci arriva tutta la stanchezza che deve provare, Carlos. Le spalle cominciano a cedere lievemente sotto la giacca bagnata, la stanchezza si espande dalla schiena e dalle ginocchia, l’unico desiderio è andare a casa a lavarsi, mangiare qualcosa e stendersi a letto.

Perché se le dodici ore di oggi sono state lunghe, ieri è stato uguale e domani molto probabilmente lo sarà: Samac è dentro una foresta pluviale, o piove o c’è la Chipi Chipi, la nebbia che sembra nascere dalle foglie degli alberi.

Carlos ha 13 anni, e queste sono le sue vacanze di Natale della terza media.

A tredici anni, Carlos non arriva a pesare i 50 kg che ogni sera porta sulle spalle.

Riuscite a ripensare a tutto quello che sapete con gli occhi di un ragazzo di 13 anni?

Lo sentite anche voi un groppo che vi prende alla bocca dello stomaco e vi toglie il respiro?

A me, quando fisso il suo sguardo, gli occhi si riempiono di lacrime.

Ma passiamo oltre, c’è dell’altro: tornate a guardare la foto e concentratevi sulla mano. Quella mano che non stringe quelle ciliegie: è contratta, dura, ferma. Provateci anche voi, fatelo adesso con la vostra mano destra. Quale sentimento sentite?

Si, proprio così: quella forza interiore che vi nasce dalla mano contratta è proprio “orgoglio”. Carlos prova orgoglioso di sé.

Ora tenete questo sentimento e guardatelo negli occhi; aspettate che fiorisca un particolare nuovo. La vedete quella lieve incurvatura delle labbra? È un sorriso.

Nella foto quasi non si vede, ma noi la possiamo percepire: Carlos, dentro di sé, sorride.

E quel sorriso non è rivolto alla macchina fotografica, ma a me, che sto di fronte a lui. Perché sono cinque giorni che sono qui a lavorare con questa comunità e quel sorriso mi sta dicendo: “Guardi qui, Señor. Ho vinto io!”.

Si, Carlos, hai vinto tu. E io ho perso.

E questa è una storia vera. Tutto inizia cinque giorni fa.

È il 2016. Come ogni anno negli ultimi cinque anni, avevo imboccato la porta della Valle Nascosta, era un mercoledì di metà gennaio. Aveva piovuto tutta la notte, e tanto. La mattina era luminosa e il sole caldo faceva evaporare un’aria pesante, densa. La pista di terra battuta si era sciolta come cioccolato gianduia lasciato al sole, ed il pick up si muoveva cauto, come il dito di un bambino.

Ero tornato perché finalmente avevamo terminato di mettere in pratica il progetto generale: ora bisognava farlo partire.

Chi ci segue da tempo sa di cosa parlo. Quindi la terrò breve: la SAMAC è una cooperativa di Maya Q’eqchìs. I Q’eqchìs vivono all’interno di una foresta pluviale che si stende sul territorio irregolare della regione, dai picchi di oltre 3000 alla piana di Tikal, dove ci sono le famose piramidi che la foresta ha inglobato.

I Q’eqchìs è l’unico popolo indigeno del Nuovo Mondo che è sopravvissuto alla conquista, mantenendo le proprie tradizioni e la propria lingua. Sono fieri ed orgogliosi, e non amano combattere. La loro identità risiede nel Popol Vuh, il Libro Sacro. Le regole del Popol Vuh mantengono vivo il sapere che l’uomo è fatto della stessa natura di Dio e vive in un Cosmo potente regolato da leggi complesse. Da sentire, seguire, rispettare.

I Q’eqchìs sono i guardiani del Popol Vuh, che in queste luoghi è sopravvissuto alla Conquista, al cattolicesimo, alle guerre mondiali, alla guerra civile. Oggi la battaglia si chiama Facebook.

La cooperativa SAMAC si trova a metà di una lunga vallata ripida, dove un’ansa del torrente crea una piana abbastanza grande da permettere di costruire il villaggio. Attorno le vette si stagliano oltre i 2300 mt, il villaggio è sui 1600 mt. Cooperativa e villaggio sono la stessa cosa.

Noi la chiamiamo La Valle Nascosta. Vi arrivai la prima volta nel novembre 2011. La situazione mi apparve subito particolarmente grave, quasi disperata: non c’erano giovani uomini, tutti partiti in cerca di fortuna. Solo vecchi, donne e centinaia di bambini come girini portati dalle onde. Le strade disordinate, la direzione della cooperativa assente, i giovani insofferenti e annoiati: SAMAC non sarebbe sopravvissuta più di due generazioni.

A parte tutto quello che era il “pacchetto” standard del Progetto Cafè y Caffè, proposi di intervenire in tre fasi. La prima fu organizzare una torrefazione nella sede della cooperativa gestita interamente dalle giovani donne, che ogni giorno andavano a vendere il caffè fino a Coban, a due ore di cammino. Questo avrebbe dato respiro finanziario alla comunità, impiego per i ragazzi e soprattutto la possibilità di rimanere al villaggio a vivere.

La seconda fu lavorare sul benessere sociale: organizzammo un ambulatorio medico (Centro de Atencion à la Mujer), un asilo infantile e una mensa per i bambini. Questo, oltre a risolvere alcuni problemi pratici importanti, servì ad aumentare il senso di appartenenza alla comunità.

Il terzo fu quello di pagare percorsi di formazione di alto livello ai ragazzi volenterosi, purchè tornassero a casa ad applicare quanto avevano imparato: agronomi con dottorato in gestione forestale e caffè, assaggiatori e tecnologi alimentari, infermiere, maestre per l’asilo e le elementari.

Avevo lavorato incessantemente con loro per cinque anni: negli ultimi due anni avevamo finalmente fatto partire la torrefazione e le donne lavoravano a pieno regime. I servizi avevano riscosso un ottimo successo, sia l’ambulatorio medico sia l’asilo. Molte giovani stavano studiando come infermiere e come maestre, e molte avevano intrapreso studi a Coban. Due ragazze si erano iscritte a medicina a Città del Guatemala. La cooperativa, inoltre, contava con quattro laureati in Scienze Forestali, sei assaggiatori di caffè e due tecnologi alimentari. SAMAC era diventata un modello per le altre cooperative della zona.

Il progetto aveva vinto il Primo Premio in occasione di EXPO 2015: alla cooperativa si erano presentati due fotografi della Magnum, un regista cinematografico, il Direttore di Anacafè e qualche Ministro del Governo del Guatemala. Foto e video della SAMAC giravano per YouTube e sui canali televisivi nazionali.

Io tornavo “sguillando” sulle piste fangose per “girare la chiave” e farli diventare completamente indipendenti. Era il mio ultimo intervento previsto, poi il progetto si chiudeva.

Il pick up svoltò a gomito per la stradina che portava all’ingresso della cooperativa. Le strade erano pulite e ordinate, le casette di legno e paglia avevano fiori nei giardini e alle finestre. Che emozione: a darmi il  benvenuto ci sarà di sicuro un’orchestra di marimba, pensavo.

Se il Cafferaio va in Ecuador: progetto “Juntos” con CEFA

Vi vogliamo raccontare una storia che addolcisca al mattino e coccoli alla sera, che abbia quell’aria delicata di una carezza da portarsi a casa con gli occhi appoggiati allo schermo e il retrogusto del caffè.

La storia di Alessio, il Cafferaio, inizia come tecnico nel 1998, quando partecipò al progetto del Cospe per il recupero delle piantagioni di caffè dell’isola che erano ormai praticamente improduttive (oggi il caffè di Fogo è entrato nell’arca del gusto di slow food).

Da allora, quando il Cafferaio parte per andare nei paesi produttori, lo fa come tecnico di filiera per progetti specifici che hanno come obiettivo quello di migliorare la qualità del caffè migliorando le condizioni di vita degli agricoltori: se stai bene, se i tuoi bambini hanno un asilo, se puoi lavorare con serenità farai meno errori e il caffè da te raccolto sarà migliore, quindi potrai venderlo ad un prezzo più giusto. Non compriamo da listino.

Gli interventi vanno dal fare formazione in campo su come e cosa fare per raccogliere il caffè al giusto grado di maturazione, come e dove stoccarlo, progettare e creare con quel che c’è a disposizione magazzini puliti, essiccatoi o benefici umidi.

L’Albero del Caffè nasce qualche anno fa, grazie agli anni di esperienza in campo, all’aver conosciuto tanti produttori, al fatto di essere ancora attivi su molti progetti.

Vogliamo raccontarvi dell’ultima missione del Cafferaio e dell’Albero (partner oltre che tecnico), in Ecuador.

Il progetto “Juntos” si occupa di zone caratterizzate da povertà diffusa, malnutrizione, bassa redditività delle produzioni di caffè, cacao e quinoa, con conseguenze negative sull’ambiente e sulle persone.

Assieme a CEFA, il nostro scopo era quello di aumentare la produttività del settore agricolo, promuovendo modelli di filiera inclusivi e partecipativi attenti alla sostenibilità economica dei piccoli produttori di caffè, cacao e quinoa, alla sicurezza alimentare e al contrasto al cambiamento climatico.

L’obiettivo era rafforzare la rete dei piccoli produttori, contribuendo a ridurre diseguaglianze e povertà rurale.

Abbiamo lavorato fianco a fianco, ascoltando, cercando di far capire come si fanno le cose e come continuarle a fare in quel modo anche dopo.

Questo progetto ha una forte componente di scambio umano: non ci sono professori esperti in giacca, ma ci sono tanti uomini, e un tecnico che si mette a disposizione cercando la soluzione al problema e offrendo la conoscenza che ha in modo chiaro e diretto e soprattutto utilizzabile da subito. È questo il lavoro del Cafferaio, di semplici torrefattori ne esistono già troppi.

Sono stati perfezionati e rafforzati i metodi di produzione, diversificati al fine di aumentare la produttività e la resilienza al cambiamento climatico dei sistemi agricoli. Sono stati introdotti elementi di innovazione sociale (educazione, salute, credito, finanza ecc.), anche creando relazioni tra associazioni di regioni diverse.

Possiamo essere una torrefazione atipica, piccola, ma con dei caffè eccezionali: nel gusto e nelle storie.

Finora abbiamo fatto sentire solo il gusto dei nostri caffè, e magari tenuto le storie per pochi amici: ora vogliamo raccontare tutto ciò che è nascosto dietro alla tazzina di caffè… che poi in realtà è cosa c’è dentro l’importante.

Per maggiori informazioni sul progetto: https://www.cefaonlus.it/progetto/reti-produttori-cacao-caffe-quinoa/.

Quando il caffè diviene opera d’arte: il Colibrì

Studiare con coscienza un caffè significa tenere da conto sia la componente di rito sia la sequenza sensoriale. Farlo in modo “ispirato” significa realizzare un “cortometraggio” di venti minuti dove il formulatore della miscela vi fa vivere ciò che vuole lui nel momento che vuole lui.

E questo è possibile perché ogni singolo caffè può essere definito per il sapore (fruttato, floreale, cioccolatato, ecc.), la corposità (setosa, vellutata, cremosa, ecc.) l’intensità aromatica e la sequenza temporale di attivazione. Significa che nel creare il plot dovrò tenere conto di quando ogni attore entra in scena, di quando esce, di cosa porta con sé e di come dialoga con gli altri attori presenti in scena.

Ecco, in questo senso prima dicevo che una miscela può arrivare ad essere un’opera d’arte.

L’opera d’arte è il “prodotto di una mente” che prende vita propria nell’intimo di chi ne fruisce. Ed è tale se fa vivere nell’intimo temi universali, come la paura, la tristezza, la compassione, la felicità.

Prendiamo la felicità: una definizione è “il rapporto tra l’idea che ho di me stesso e la realtà che vivo ogni giorno”. Più combaciano, più sarò felice. Il principale strumento che l’essere umano di tutte le latitudini e culture ha per costruire la propria felicità è la creazione deliberata di rituali sia intimi sia collettivi. I riti legati alla caffeina (caffè, the, cioccolata, mate, ecc.) sono tra i più potenti strumenti di costruzione della nostra identità.

Nel caffè, l’opera d’arte scatta nel momento in cui il cortometraggio che il formulatore di miscela ha in mente viene vissuto come “universale” nell’intimo del rito personale di chi lo beve.

 

Ecco, tra i nostri caffè, l’esempio del processo di creazione “ad arte” di una miscela è il Colibrì. Sono tre miscele diverse perché dedicate a tre rituali diversi.

L’idea nacque tanti anni fa, quando lavoravo per un Istituto che si occupava di sviluppare progetti di agricoltura biologica ed etica. Era un ambiente altamente dinamico e produttivo e lo scambio d’informazioni era fondamentale. Un collega che passava davanti alla scrivania e chiedeva “prendi un caffè” significava in realtà “ho bisogno di parlarti, di dirti, di chiederti, che mi ascolti o mi consigli”. Già verso mezzogiorno il livello di caffeina era alto e alla richiesta “prendi un caffè” spesso si alzava la testa rispondendo un distratto “no”. In questo modo s’interrompevano le dinamiche sociali di scambio ed i vari reparti dell’ufficio si auto isolavano. Forse anche per questo, le prime ore del mattino erano le più produttive. In ufficio avevamo a disposizione anche del decaffeinato, ma ammettiamolo: era imbevibile! Serviva altro: serviva un caffè buono e con poca caffeina.

Quindi, quando a L’Albero del Caffè decisi di sviluppare le cialde compostabili e biologiche, ritornò fuori l’idea: realizzare un caffè a basso contenuto di caffeina, pop (che piaccia a tutti) e duttile (deve essere buono ristretto, lungo, in purezza, dolcificato, con aggiunta di latte…). Essendo un momento di dialogo, il centro dell’esperienza di beva deve favorire il processo di comunicazione e riflessione. Il retrogusto deve essere piacevole (confermare l’esperienza positiva che “ho fatto bene a fermarmi a parlare”) e persistente (continuare anche quando si è tornati al proprio lavoro, per attivare la futura aspettativa positiva). Inoltre, trattandosi di cialde, l’aspettativa andava curata con un componente ad hoc. In sintesi, l’obiettivo è raggiunto se chiunque, in ufficio, alla domanda “Prendi un caffè?” risponde sempre “Si!” prefigurandosi un’esperienza positiva.

Il primo problema che ho dovuto affrontare è la presenza di caffeina. La mia fortuna è stata poter partire da un eccellente decaffeinato (il nostro Perù Deca Bio ad Anidride Carbonica): ha un corpo burroso ed un profilo aromatico quasi esclusivamente di cioccolato fondente. Ha note di mirtillo e frutti di bosco, in particolare nel retrogusto. Ho aggiunto il Brasile per amplificarne la corposità cremosa, aumentare lo spessore al cioccolatato e portarlo fin nel retrogusto. In più, il Brasile permette di accogliere un dolcificante, che muta il cioccolato fondente del Perù in cioccolato al latte. Questa è diventata la base del Colibrì: bassa caffeina, caffè popolare e persistente. Ora dobbiamo renderlo un caffè “sociale”, che favorisca il dialogo tra le persone e le ponga in uno stato d’animo positivo e ricettivo.

Aggiungendo il Nilgiri il corpo si struttura e va a coinvolgere anche la parte bassa del palato. Il cioccolato fondente accoglie le note di fava di cacao e nocciola. Al primo sorso la lingua comincia a girare nella bocca rincorrendo le note di cioccolato, mentre le spalle si rilassano in questa corposità morbida ed avvolgente. Aggiungendo il Palacaguina porto l’aroma di cioccolato già nel momento dell’estrazione, lavorando sulla conferma dell’aspettativa. Un cioccolatino: lo penso, lo annuso, lo bevo, me lo giro nel palato mentre parlo e lo riporto in bocca al lavoro.

 

Il Colibrì per moka è nato da un lavoro collettivo: la nuova miscela per cialde non aveva ancora un nome quando in torrefazione ospitammo una squadra di superstar dell’assaggio, a livello mondiale. I tecnici di laboratorio di Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica, ed Ecuador, in Italia grazie ad un programma di cooperazione internazionale (L’Albero del Caffè è tra i luoghi di docenza ufficiale). Stavamo insieme analizzando la reazione del palato all’estrazione delle cere e degli oli essenziali del caffè, che avviene con la moka, e per questo sul tavolo avevamo il medesimo caffè (Perù) con caffeina e senza caffeina; e questo perché il processo di decaffeinizzazione tende a diminuire la quantità di cere estratte. La discussione passò presto dall’analisi del profilo organolettico al diverso stato d’animo che il medesimo caffè ci stava provocando: un caffè con poche cere è più gradito il pomeriggio e la sera. Nacque così l’idea di creare una miscela per il dopocena.

Fatima Lopez (Prodecoop, Nicaragua), disse che il caffè è un ottimo digestivo, quindi dovevamo fare un caffè “semplice e rilassante”. Un sapore che accompagnasse fino a letto. Il Perù è una buona base di cioccolato fondente e deve essere mantenuto come tema principale.

Carlos Munoz (Anacafè, Guatemala): d’accordo, ma bisogna ampliare la struttura su lingua e sul palato per legarsi al sapore del pane e della pasta.

Julio Obregon (Cecocafen, Nicaragua): il corpo burroso è mattiniero! Dovrebbe virare sul velluto o la seta.

Lorving Calderon (Ihcafe, Honduras): ottimo! Ma deve anche preparare il palato ad accogliere un aguardente; una grappa, un rum, un whisky.

Cominciammo a provare differenti profili, dal fruttato degli etiopi e dei Guatemala, al cioccolatato del Nicaragua, Messico e Costa Rica, all’agrumato dell’Honduras. L’agrumato ci sorprese in una risata collettiva.

Julissa Pena (Ihcafè, Honduras): “Es agraciado y gallardo como un colibrì”.

Josè Solis (Icafé, Costa Rica): sì, e come un colibrì dovrebbe essere atteso ma arrivare inaspettato. La sera siamo già saturi di rumori ed odori, sarebbe meglio se non si aggiungesse anche quello del caffè.

Così è nato il Colibrì per moka: l’aroma arriva solo quando la tazzina è a contatto con il naso. Ha un corpo vellutato ed arioso. Il profilo di tazza è cioccolato fondente, semplice e lineare, che si apre a sentori di mirtillo e scorza d’arancio. Il retrogusto è lieve ed intimo, con note di cioccolato ed agrumi. È un caffè chiaccherino. Ed è allegro, come l’atmosfera che si creò quel giorno.

Ancora oggi lo preparo con Perù Deca, Brasile, Palacaguina (la città di Fatima e Julio) e Chiquimula (la città di Carlos e, a pochi chilometri dal confine, vive Lorving). Fu forse attorno a quel tavolo che nacque anche l’amore tra Julissa (Honduras) e Juan (Ecuador), che si sposarono tre anni dopo.

 

Più o meno un mese dopo, era maggio ed eravamo a Firenze ad un evento a Villa Strozzi. Assieme a noi, Elisa Nesi esponeva i suoi quadri nella Limonaia. Oltre i vetri gli uccelli cantavano la musica di maggio.

Raccontandoci a vicenda, le parlai della giornata di creazione della miscela.

Elisa disse che è un caffè che ti fa fermare a riflettere, mentre il mondo prosegue vorticoso.

Non ne parlammo più. Dopo un paio di mesi arrivò il quadro che è diventato il vestito di Colibrì: con tratti morbidi, una donna maya siede sotto un grande albero di caffè. Attorno a lei la natura esplode di colori e profumi e del frullare degli uccelli. La giovane donna sorride, con il suo chicco di caffè in mano. In ascolto, anche di sé.

La miscela per espresso nasce alcuni anni dopo. Un tardo pomeriggio di novembre, seduto con amici per un aperitivo, guardavo attorno a me i tavoli animati di persone che uscivano dal lavoro, tra stanchezza e voglia di leggerezza.

Così ho sognato un caffè semplice per menti e palati stanchi, che accogliesse lo zucchero perché a fine giornata ci vuole, per tirarsi un po’ su. Che muti la stanchezza in lieve allegria (fruttato), perché la giornata di lavoro è finita. E con poca caffeina, perché sono qui con i miei amici, è il nostro rituale. E poi ho desiderato che mi accompagnasse fino a casa. Mi sono visto camminare in quel momento in cui le luci dei lampioni si confondono con gli ultimi colori del tramonto, il vicolo della città riflette entrambi, cammino stanco e felice per il momento trascorso e penso a casa, alla mia tana calda e asciutta. Mi giro la lingua nella bocca che ha il retrogusto di caffè e desidero che sia cioccolata al latte e nocciole tostate … nel ricordo di un corpo da panna montata. E ciliegie sciroppate.

È nato così, Colibrì.