Inizia così la storia del Cafferaio

1 Luglio 2019

Tre cose so per certo: la prima è che non so saltare sui treni in corsa; le mie cose me le devo costruire punto per punto come il ragno tesse la ragnatela o alcuni uccelli il nido. La seconda è che, alle feste, mi trovate nel gruppo che cura il barbecue. Perché mi piace fare, e sto bene con le persone che usano le mani e sono curiose e invece di puntare una costoletta, te la cucinano e te la portano anche al tavolo. Poi via un’altra, che finché la birra è fresca ce n’è per tutti.

È probabile che le due cose abbiano una radice comune: chi sta a bordo piscina con uno spritz, se passa il treno lo vede per tempo e ci salta su. Ma se la salsiccia non è pronta, cosa fai: molli tutto?

La storia professionale che amiamo raccontare sui social è un inanellarsi di successi, un gradino alla volta verso le stelle.

La mia storia è più un saliscendi: impegno, cadute, riprese, successi e fallimenti. Non fa “figo” e non è certo “attraente”. A volte ho visto andare tutto in fumo senza riuscire a toccare un boccone di quello che avevo cucinato. L’unica costante della mia vita è la perseveranza.

La terza cosa che so è che il caffè, per me, non è il fine ma uno strumento. È lo strumento che ho scelto per esprimere il mio modo di stare nel mondo. La mia idea di essere vivo. E mi appassiona nella misura in cui mi permette di avere a che fare con persone fantastiche.

Perché la vita è bella.

 

Da ragazzino avevo tre passioni: sport, musica e l’idea che siamo nati tutti uguali. Lo sport era una costante e riempiva ogni momento libero. La musica… quella dei classici, e quella dei gruppetti che nascono nella nostra primavera… e non avendo talento musicale, stavo dietro al mixer, che è un altro modo di stare al barbecue.

Nel mentre, fuori dalla mia bolla, scoppiava la guerra in Jugoslavia e in Iraq, crollava il muro di Berlino, moriva la rivoluzione Sandinista e gli indios dell’Amazzonia Ecuadoriana lanciavano frecce e giavellotti contro le mostruose trivelle petrolifere. La nube di Chernobil faceva fiorire mostri. Volavano via gli eroi Falcone e Borsellino. Mi ci vollero molte delusioni per accettare che la mia idea di essere nati tutti uguali non era compatibile con la politica.

Negli anni del liceo mio padre lavorava per una grossa torrefazione del bolognese, la Co.Ind. Era un caso a sé: una cooperativa che (allora) lavorava solo a marchio di altri (Coop, Conad, …).

Per me il caffè era, allora, l’odore della macchina di papà, che aveva il suo posto auto sotto il camino delle tostatrici. Nomi esotici come Brasile, Guatemala, Costa Rica, Colombia, Haiti. I sacchi di yuta dipinti con i colori delle “fazende” colonialiste. E la grande libreria del suo ufficio: quel mondo a cui non appartenevo era una fonte inesauribile di aneddoti e curiosità.

Una mattina di gennaio, in Chapas, il Subcomandante Marcos scese in piazza alla guida di migliaia di produttori di caffè. Con un discorso favoloso dichiarò guerra allo stato più potente del centroamerica, supportato da Canada e Stati Uniti. Il mio cuore di guerriero adolescente s’incendiò.

Cominciai a studiare il mondo del caffè: la Borsa, il consumo, la povertà. Il caffè poteva essere lo strumento per costruire un mondo più giusto. Lavorando fianco a fianco dei coltivatori, come faceva Marcos. Sarei stato un eroe silenzioso al servizio dei più deboli… tipo il Che, quando era ancora Ernesto Guevara … e magari con la manualità di Mac Gyver. Una cosa così.

Al tempo tutto il sapere del caffè era nei centri di commercio del “crudo”: i commercianti importavano la materia prima per le torrefazioni, che compravano (e comprano) da italiani sul territorio italiano. Il sapere era da loro centellinato e solo a fini commerciali. Non esisteva la figura dell’assaggiatore di caffè, non esistevano laboratori di controllo qualità, nemmeno nelle aziende più grandi. Si comprava da un listino e al buio, su un conteggio di difetti visivi (oltre a difetti di sapore macroscopici); le torrefazioni programmavano gli acquisti in base all’andamento della Borsa di New York. Nessun rapporto con i produttori: all’avanguardia le grandi torrefazioni che arrivavano fino al porto di partenza per risparmiare sulle spese di spedizione.

Non esisteva la figura del tecnico di filiera, che era l’idea che mi si stava delineando nella mente: cioè un tecnico che si mettesse a fianco dei produttori per accorciare la filiera, così che i contadini, magari riuniti in cooperativa, potessero vendere direttamente ai clienti finali. Ma il problema più grande, è che nessuno ci voleva andare, in piantagione. E selfie a parte, ancora oggi poco è cambiato.

In Italia solo due realtà avevano avviato progetti di filiera: Coop (con la linea Solidal) e Altromercato. Entrambe facevano lavorare il caffè a Co.Ind. Ero nel posto giusto! Non solo: era l’unico posto. Da anni sedevo su una miniera d’oro.

 

Cominciai a frequentare il più possibile i locali della torrefazione, anche se mi erano interdetti perché ero solo il figlio di un dipendente. Parlavo con gli operai, con i tostatori, con i magazzinieri che scaricavano i camion di caffè. Imparai a sentire gli odori diversi dei caffè verdi e di quelli tostati, studiai e ristudiai tutti i libri della biblioteca. Franco e Victor mi guidarono in un mondo fatto di geopolitica e trattative, di economia solidale e Grande Distribuzione Organizzata. Ma soprattutto, entrai nel laboratorio del controllo qualità. Spinti da Coop Italia, e con piglio ingegneristico, i due tecnici di qualità (Marco e Vittorio) erano partiti in un percorso di studio all’avanguardia che divenne, dieci anni dopo, la base delle metodologie ufficiali di assaggio per espresso. È molto diverso “ricevere” un metodo di lavoro e “costruirlo” partendo da zero: la profondità del sapere in gioco non ha confronto. Io ero lì: curvo a separare i difetti nei campioni di caffè, a guardare i primi grafici excel per costruire la valutazione economica, nell’angolo del tavolo ad assaggiare, in silenzio per non disturbare, caffè da ogni paese e varietà con metodi empirici tra cupping, moka ed espresso. E a forza di prove e riprove, è nato lo standard rigido che oggi viene insegnato. È inutile nasconderlo: ho avuto accesso a questi grandi maestri solo perché ero il figlio del direttore di produzione. Io c’ho messo solo l’impegno e la curiosità.

Lavorare fianco a fianco dei produttori significa proprio scarpa contro scarpa. Per questo, mente e mano dovevano crescere di pari passo. Al barbecue, non basta sapere che la braciola si cuoce al cuore a 72°C: se non la giri, si brucia. Ci sono due tipologie di tecnico: chi dice che la carne è da girare, e chi la carne la gira. Il primo parla di numeri e funzioni. Il secondo ha con sé i guanti per non scottarsi. Trovai un impiego part time nella bottega di un restauratore di mobili antichi, i pomeriggi dopo la scuola. D’estate, invece, facevo la raccolta della frutta e lo stagionale nelle grandi fabbriche ortofrutta delle mie zone.

Presa confidenza con la lavorazione del legno, passai al ferro e divenni garzone di un saldatore. Da lui imparai che l’arte si nasconde in posti inaspettati: Paolo usava il saldatore a filo come una matita da disegno e mi insegnò l’ordine e la pulizia in officina.

Quando finii il liceo, m’iscrissi ad Ingegneria meccanica: lavoravo di giorno, studiavo di notte e nei weekend. Sapevo che se avessi lavorato duro ce l’avrei fatta. Ressi tre anni: l’esame di Scienze delle Costruzioni mi trovò esausto. Inciampai e rimasi a terra. Guardavo i miei coetanei e tutta quella fatica aveva perso di senso. Scese il buio.

Demoralizzato, lasciai tutto e andai a fare la naja.

 

Fu un anno d’isolamento, ma fu come olio profumato sulla pelle arida della mia anima: ritrovai il sogno e le energie. Ma due mesi prima di ritornare a casa mio padre si licenziò. Voleva stimoli nuovi, disse. Per me fu un duro colpo: non avevo considerato che tutto il sapere contenuto in quel luogo potesse avere una scadenza a tempo. E io non avevo finito il mio apprendistato. In una lunga passeggiata nei campi appena seminati attorno a casa, parlammo. Per la prima volta gli esposi il piano su cui lavoravo da cinque anni, cosa volevo fare e cosa pensavo mi mancasse. Lui mi espose il suo. Tornati a casa, avevamo deciso di aprire insieme una società di consulenza sul caffè. Io mi davo un anno per apprendere quello che mi mancava, lui mi metteva a disposizione il suo sapere ed i suoi contatti.