Mi piace conoscere persone, chiacchierare e scoprire diversi modi di guardare la vita. Quando si parla della professione, di solito rispondo “assaggiatore di caffè”, perché non è commerciale come torrefattore e non è complicato come tecnico di piantagione. Di solito, a questo punto ricevo puntuale la domanda: “Qual è il più buono?”. Io rispondo sempre: “quello che ti piace di più”.
Non è una risposta politica, è la verità: il caffè più buono per te è esattamente quello che tu scegli.
Personalmente, da assaggiatore e da artigiano, credo che un buon caffè debba nascere da un progetto, da un’idea. Se questa idea è portata avanti con consapevolezza e capacità tecniche, allora può venirne fuori qualcosa d’interessante. Se è realizzata con ispirazione, siamo nell’opera d’arte. Detta così sembra un po’ esagerata, seguitemi un attimo che cerco di spiegarmi meglio.
Il caffè può essere vissuto come lo shot di caffeina, ma se ci pensiamo bene è molto di più.
È un rito. Anzi, sono almeno tre riti. Ve li accenno brevemente.
Iniziamo con il rituale del risveglio. Casa: luogo sicuro che noi abbiamo creato e che governiamo. Il rito del primo caffè del giorno è intimo e fortemente legato alla nostra identità. Si rafforza nell’ambiente famigliare attraverso gli odori caratteristici dell’ambiente cucina. Il primo caffè siamo noi, nella nostra pienezza e prima che il mondo cominci a girare. In questa categoria s’inserisce anche il caffè che ci viene offerto a casa di amici o parenti: è un rito di invito ad entrare temporaneamente nella parte intima della casa.
Poi abbiamo il rito “della pausa caffè”: anche in questo caso siamo in un ambiente familiare, che sia l’ufficio o la grande macchina automatica con mille e più bottoni. Qui il caffè è un momento di sospensione dell’attività produttiva. Può anche essere un momento di dialogo più rilassato e cordiale, può anche essere lavoro: ciò che conta è che la produttività non è né misurata né prioritaria. E se ci pensate bene, ognuno di noi inserisce la “pausa caffè” all’interno di mini rituali personali o collettivi.
Infine c’è il “rito della strada”, il caffè che prendiamo al bar con colleghi, conoscenti o amici, spesso non programmato e che sancisce l’atto di dedizione di tempo (necessariamente poco) al dialogo diretto con un gruppo ristretto di persone. In questo caso il rito è l’esposizione di una specifica immagine temporanea di noi stessi: la postura, la voce, il dialogo. Probabilmente molti di noi sono “quella persona” solo all’interno di questo momento specifico.
Il tema dei riti è qui solamente accennato: abbiamo sbirciato dentro la serratura della porta “il caffè può essere lo shot di caffeina, ma se ci pensiamo bene è molto di più”.
Ora, andiamo a vedere cosa succede ai sensi. L’atto di prendere un caffè non si circoscrive alla deglutizione: non è la fotografia di un liquido che colpisce la bocca e scende caldo lungo l’esofago. Prendere il caffè è un’esperienza che coinvolge più sensi per un tempo che può arrivare anche a dieci o venti minuti. Li guardiamo tutti e tre?
Il primo è a casa, la mattina. Pensiamo alla moka. Mentre la prepariamo, l’odore della polvere del caffè si unisce agli odori di casa, alle nostre dita ed al sapore che la notte ci ha lasciato in bocca. Ci sediamo ad aspettare “quel suono”, e per farlo ascoltiamo tutta la casa con i suoi rumori unici. Finalmente arriva, il “gorgoglio”, e noi scrutiamo il vapore che esce dal beccuccio. Versiamo il caffè nella tazzina ed un vapore caldo ed aromatico ci avvolge la mano ed il viso. Attendiamo un attimo e beviamo il primo sorso: caldo, amaro, impattante. Con la lingua ci godiamo la corposità del liquido (è una sensazione tattile), deglutiamo e sentiamo il caldo del caffè che scende e gli aromi che risalgono lungo il cavo retro-nasale. Il sapore del caffè, davvero, lo sentiamo quando non l’abbiamo più in bocca. Finito il caffè ci alziamo, ed il sapore ci accompagna ancora per diversi minuti. La sequenza olfatto-udito-vista-olfatto-tatto-olfatto-gusto-tatto-gusto dura circa venti minuti, metà dei quali sono come un “sottofondo musicale” all’inizio della nostra giornata.
Per avere un’idea di come agisce in noi il rito, la prossima volta che capitate in una casa dove il caffè viene fatto con le capsule ponete attenzione alle sensazioni che provoca in voi l’assenza di odore di caffè in cucina: è meno “casa”, non trovate? E siamo tutti un po’ più rigidi sulle sedie, o sul divano: seduti quasi in punta … e il dialogo con i padroni di casa è meno “empatico”.
Pensate quindi a quale può essere la potenza della sequenza a cui scegliete di dar vita (e di vivere) ogni mattina: è profondamente radicata nell’inconscio di ognuno di noi ed è ricca di significati.
Secondo rito: al lavoro. Il rito del caffè comincia nel momento in cui decido di entrare in questo momento di “sospensione” della produttività che chiamiamo “pausa caffè”. Da questo momento si genera un’aspettativa dell’esperienza che ha generato questo “diritto di sospensione”: l’esperienza di bere il caffè prende i connotati del diritto di prenderci una pausa. Non so se rendo l’idea dell’importanza che questo concetto ha sulle nostre vite. La ripeto: la possibilità di sospendere momentaneamente la produttività (che è misurabile e monetizzabile) nasce dal diritto di fare la “pausa caffè”. Come conseguenza, essendo il caffè uno strumento e non essendo in mio pieno controllo, l’aspettativa (positiva o negativa) sarà lo specchio del rapporto (quasi sempre non conscio) che io ho con il lavoro e l’ambiente. Faccio brevemente alcuni esempi concreti. Se il caffè mi piace avrò normalmente un buon rapporto con il lavoro ed i colleghi. Se il caffè non mi piace ed opterò per un the o una tisana, mi isolerò dai “bevitori di caffè”. Questo vale anche al contrario: se il lavoro o l’ambiente di lavoro non è di mio gradimento, il sapore del caffè “sgradevole” sarà lo specchio del “non aver scampo” nemmeno nella pausa. La pausa caffè è uno specchio infallibile delle dinamiche sociali e una forte cura e personalizzazione del luogo dove avviene è uno strumento di rafforzamento dei gruppi di lavoro ed aumento della produttività.
In questo senso, quando decido di prendermi la pausa caffè, si genererà in me l’aspettativa dell’esperienza che vivrò: mi prefiguro la pausa e inconsciamente la carico di significati.
Consideriamo una normale macchina per vending o a cialde, per cui eliminiamo tutta la parte di preparazione e di odore nell’ambiente: la sequenza è (aspettativa)-(scelta)-(attesa)-odore-vista. L’esperienza di beva invece è avvicinamento (olfatto), primo impatto con la lingua (tatto), deglutizione (gusto) e retrogusto (gusto). Se il caffè non è “sporco”, il retrogusto è prevalentemente tatto (sensazione di terra in bocca e pungente in gola). Qui le fasi più importanti sono l’aspettativa ed il retrogusto (conferma dell’aspettativa e ritorno al lavoro) per un’esperienza completa di una ventina di minuti.
Il “rito della strada” è invece molto più semplice ed asettico, in larga parte non controllato (a meno che non si vada in un locale familiare) e si basa fondamentalmente sulla sequenza di tre momenti: l’avvicinamento della tazzina con la crema che favorisce il primo impatto (sensazione piacevole/spiacevole), la deglutizione ed infine il retrogusto, che può essere più o meno persistente. Il resto è rumore di ambiente.